19 Marzo 2024
L'Urbanina

La seconda serie

La seconda generazione della Urbanina fu presentata al salone di Torino del 1967 con la versione elettrica affiancata da una più convenzionale motorizzazione a due tempi Lambretta portato a 198 cc. Per la cabina fu scelto un design meno basico e più protettivo adottando – anche grazie ai buoni rapporti di Narciso Cristiani con la Piaggio – la struttura di un motocarro Ape. Le prestazioni dichiarate, 70 Km/h e 150 Km di autonomia, apparvero perlomeno ottimistiche.

Per la motorizzazione elettrica fu adottato un motore da 2 Kw, il cambio rimaneva lo stesso ma i contatti permettevano di collegare gli elementi della batteria in serie ed in parallelo, ottimizzando il consumo dell’energia immagazzinata e sfruttandoli in modo uguale. Furono inseriti altri componenti quali la frizione (sempre di tipo elettrico) che rendeva la guida più simile alle auto tradizionali e permetteva di salvaguardare i contatti del selettore-cambio. Fu anche sperimentato un sistema che consentiva di recuperare l’energia prodotta dal motore in fase di decelerazione così da ricaricare gli accumulatori batterie (proprio come nelle auto elettriche ed ibride dei nostri giorni), ma il progetto fu accantonato per i costi e, soprattutto, per la difficoltà di reperire i componenti necessari, negli anni ’60 lo sviluppo dell’elettronica, come la intendiamo oggi, muoveva i primi passi.

Si lavorò anche sul cambio per rendere la marcia ancora più fluida. Narciso Cristiani contattò la ditta CETAS, della vicina città di Empoli, in quegli anni una delle aziende più esperte nel campo della nascente tecnologia elettronica. La CETAS, guidata da Italiano Fraccari, affidò il progetto all’ ing. Enrico Micheletti che si trasferì per un paio di anni presso l’officina di Poggio Adorno. Micheletti progettò un variatore di velocità a modulazione di ampiezza che consentiva di regolare la potenza del motore non “a sbalzi” modificando la tensione di alimentazione ma in modo continuo modulando la larghezza, ovvero la durata temporale, di una serie di impulsi trasmessi al motore. Anche questo un concetto modernissimo nella seconda metà degli anni ’60.
Per la motorizzazione elettrica fu adottato un motore da 2 Kw, il cambio rimaneva lo stesso ma i contatti permettevano di collegare gli elementi della batteria in serie ed in parallelo, ottimizzando il consumo dell’energia immagazzinata e sfruttandoli in modo uguale. Furono inseriti altri componenti quali la frizione (sempre di tipo elettrico) che rendeva la guida più simile alle auto tradizionali e permetteva di salvaguardare i contatti del selettore-cambio. Fu anche sperimentato un sistema che consentiva di recuperare l’energia prodotta dal motore in fase di decelerazione così da ricaricare gli accumulatori batterie (proprio come nelle auto elettriche ed ibride dei nostri giorni), ma il progetto fu accantonato per i costi e, soprattutto, per la difficoltà di reperire i componenti necessari, negli anni ’60 lo sviluppo dell’elettronica, come la intendiamo oggi, muoveva i primi passi.

Si lavorò anche sul cambio per rendere la marcia ancora più fluida. Narciso Cristiani contattò la ditta CETAS, della vicina città di Empoli, in quegli anni una delle aziende più esperte nel campo della nascente tecnologia elettronica. La CETAS, guidata da Italiano Fraccari, affidò il progetto all’ ing. Enrico Micheletti che si trasferì per un paio di anni presso l’officina di Poggio Adorno. Micheletti progettò un variatore di velocità a modulazione di ampiezza che consentiva di regolare la potenza del motore non “a sbalzi” modificando la tensione di alimentazione ma in modo continuo modulando la larghezza, ovvero la durata temporale, di una serie di impulsi trasmessi al motore. Anche questo un concetto modernissimo nella seconda metà degli anni ’60.

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